domenica 23 dicembre 2007

Il sogno del principe di Salina:l'ultimo Gattopardo

E' andato in scena mercoledì 19 dicembre al Teatro Fraschini di Pavia il secondo appuntamento con lo spettacolo intitolato Il sogno del principe di Salina: l'ultimo Gattopardo con la regia di Andrea Battistini.
Il testo è liberamente ispirato agli appunti e alle lettere di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ed è bene sottolinearlo -in positivo o negativo che sia- dal momento che in parte del pubblico serpeggiavano voci di scontento per la poca attinenza ai precedenti librario e cinematografico. Ammettendo che un confronto con l'originale e con la successiva trasposizione viscontiana sono probabilmente inevitabili, specialmente agli occhi di chi quelle pagine e quelle immagini conserva ancora nel cuore, e fermo restando il pieno diritto degli spettatori di compiere paragoni (rischio calcolato nella scelta di rapportarsi con un testo famoso e amato), non bisognerebbe -a mio parere- recarsi a teatro con altra prospettiva che quella di vedere e giudicare lo spettacolo per come si presenta, senza dimenticare che esso ha una sua autonomia e un suo valore che può essere gradito o no.
Lo spettacolo, attraverso la prospettiva del principe Fabrizio Corbera (Luca Barbareschi), affronta il delicato passaggio di consegne dall'antica nobiltà all'emergente e arricchito ceto borghese in occasione dello sbarco di Garibaldi in Sicilia in prospettiva dell'unificazione italiana. Il mutamento degli equilibri e degli interessi in una Sicilia immobile e sensuale è presentato più che da un punto di vista strettamente storico, da quello dei rapporti personali e privati che si dipanano tra i personaggi: il legame di don Fabrizio con Tancredi (Alfredo Angelici) il giovane nipote votato alla causa liberale che si innamora di Angelica, la bella figlia di un neo asceso al potere; il rapporto tra il principe di Salina e Calogero Sedara (Totò Onnis) padre della promessa sposa, ignorante ex-faccendiere arricchitosi e divenuto sindaco; la relazione di Fabrizio con l'amata moglie (Chiara Di Stefano) un po' bigotta che non riesce a comprenderlo fino in fondo e il vincolo di affetto che lo lega a Concetta (Dajana Roncione), la figlia rispettosa e orgogliosa che tanto gli somiglia e che unica conserva la fierezza del "gattopardo". Il tutto visto attraverso il filtro dell'ironia e del sarcasmo che non risparmia nemmeno la chiesa e che, a volte, raggiunge punte un po' troppo eccessive correndo il rischio di avvicinare l'opera un po' troppo a una commedia e di far perdere il senso di decadimento e spaesamento vissuti dal protagonista. Sentimenti questi che esplodono in momenti come il dialogo di don Fabrizio con la piccola prostituta Mariannina e il monologo finale precedente la morte del principe. In queste occasioni che arrivano quasi prepotentemente e in contrasto con i precedenti attimi di ilarità -dove solo occasionalmente traspariva una tristezza tenuta celata- il principe dà sfogo a tutto il suo orgoglio di animale ferito che si sente inadeguato nel limbo tra passato e futuro e che solo la morte può liberare da questa sensazione.
Luca Barbareschi dà vita a un don Fabrizio possente, fiero, pungente e a volte aggressivo, proprio come un esemplare della razza felina in via d'estinzione che dà il titolo al romanzo di Tomasi di Lampedusa, che si aggira in una scenografia accurata (Carmelo Giammello) -così come i costumi di Andrea Viotti- ma allo stesso tempo preda del vortice del tempo che corre veloce cambiando tutto perchè tutto rimanga com'è.






VOTO: /5

giovedì 20 dicembre 2007

Hitman

Da qualche settimana sugli schermi italiani, Hitman - pellicola ispirata all'omonimo videogioco, famoso in tutto il mondo- racconta la storia di un agente (Timothy Oliphant) di una segreta organizzazione internazionale dedita agli assassini su commissione e il cui organico è composto da bimbi e ragazzi orfani e abbandonati educati appositamente per diventare -una volta diventati adulti- perfetti ed infallibili sicari. 47, questo il numero identificativo del protagonista, è uno di loro e si trova coinvolto, durante una missione in Russia, in un complotto ai suoi danni che coinvolge la stessa agenzia a cui appartiene e i più importanti servizi segreti mondiali.
Tra combattimenti con le spade, sparatorie, appostamenti e inseguimenti immancabili per un film di questo genere, il regista Xavier Gens rimane fedele al videogioco nella scelta dell'abbigliamento impeccabile ed elegante (giacca e pantaloni neri, camicia bianca e cravatta rossa) del personaggio principale e nel posizionamento della macchina da presa che -proprio come nel videogame- frequentemente segue a distanza ravvicinata l'agente 47, mettendone in primo piano il cranio rasato tatuato con il suo codice a barre identificativo.
Il film sicuramente apprezzabile da un pubblico amante dei film d'azione, incentrati sulle rocambolesche scene di massacri e omicidi, e dagli appasionati della console non convice fino in fondo chi (come me) è completamente digiuno di videogiochi e non impazzisce per le scene di combattimento fini a se stesse. Nonostante il tentativo di fornire un substrato psicologico "umano" al protagonista con l'inserimento del personaggio di Nika (Olga Kurylenko) -giovane e bellissima prostituta che cerca di scalfire l'imperturbabilità dell'Agente 47- e nonostante l'introduzione di una personalità più posata e riflessiva (un "buono" come lo definisce lo stesso Agente 47) come quella del capo dell'Interpol (Dougray Scott), il film non va al di là di una superficiale caratterizzazione dei personaggi. Poco importano le vere motivazioni politiche e personali, ciò che conta è offrire un pretesto per sparatorie e agguati.
Anche se complessivamente il film non entusiasma (almeno me), non mancano tuttavia elementi di forza e spunti interessanti che avrebbero meritato maggior approfondimento. Tra i primi la scelta di far interpretare l'Agente 47 all'attore Timothy Oliphant che ben incarna il fascinoso, misterioso e impenetrabile assassino e la variazione delle ambientazioni che ci portano da San Pietroburgo, ad Istanbul, attraverso la Nigeria e non solo. Mentre per quanto riguarda il secondo punto merita una nota di rilievo l'inizio del film che, sulle note dell'Ave Maria di Schubert, racconta brevemente (forse troppo) l'addestramento degli agenti-bambini all'interno dell'organizzazione segreta, una maggiore attenzione al quale avrebbe probabilmente potuto evitare il rischio di far risultare Hitman un semplice trasferimento del videogioco sullo schermo.


VOTO: /5

mercoledì 12 dicembre 2007

Parliamone insieme: "Requiem for a dream"

Si è concluso lunedì 10 dicembre il ciclo "Parliamone insieme". Protagonista del terzo e ultimo appuntamento, per affrontare il tema della droga, il film Requiem for a dream di Darren Arenofsky.
Probabilmente la più forte e impressionante delle tre proiezioni, la pellicola racconta la storia di quattro personaggi legati tra loro da legami familiari, affettivi o d'amicizia, le cui esistenze vengono devastate dall'uso della droga: Sara Goldfarb (Ellen Burstyn), madre sola e videodipendente che, per inseguire il suo sogno di un'apparizione televisiva, cade nell'abuso delle anfetamine; Harry Goldfarb (Jared Leto), suo figlio tossicodipendente, che aspira -insieme all'amico Tyrone (Marlon Wayans)- a diventare un importante spacciatore per poter guadagnare molti soldi e aprire un negozio di abbigliamento con la fidanzata, Marion Silver (Jennifer Connelly), anche lei cocainomane.
Il film, suddiviso in tre capitoli (Summer, Fall, Winter), segue la parabola discendente di questi personaggi dall'iniziale aspirazione alla felicità -in realtà solo l'inseguimento di una fragile illusione- al tragico epilogo finale che vede l'infrangersi di tutte le loro speranze.
Sebbene la scelta di questo film sia stata fatta principalmente, in questo contesto, per le provacazioni tematiche in esso contenute, è impossibile discuterne senza parlare di alcuni aspetti tecnici che contribuiscono in maniera fondamentale all'esposizione dell'argomento trattato. La pellicola, infatti, colpisce per la regia molto presente, ma non prepotente, che attraverso la scelta delle angolazioni, i numerosi movimenti di macchina e la sincronizzazione della colonna sonora contribuisce a rendere in maniera cruda e diretta l'ambiente della droga. E' soprattutto il montaggio, però, a ricoprire un ruolo preponderante: dalle vicende narrativamente parallele dei personaggi che, a tratti, vengono presentate altrettanto parallelamente sullo schermo diviso verticalmente a metà; all'accelerazione delle sequenze per comunicare l'eccitazione e lo "sballo" conseguenti all'uso di stupefacenti; da alcune accentuate ellissi temporali, al montaggio rapido, sincopato e sintetico con cui viene descritto il momento dell'assunzione della droga (cocaina sul piano di "lavoro", cartina arrotolata, vasi sanguigni, pupilla dilatata) e che si ripete sempre più frenetico col procedere del film...tutto coopera alla definizione di un quadro non apertamente violento o impressionante, salvo alcune immagini, ma non per questo meno tragico e angosciante.
L'intero film colpisce come un pugno allo stomaco, impossibile rimanere indifferenti (per usare una frase forse un po' inflazionata "o lo si odia o lo si ama") di fronte alla storia di queste vite distrutte dalla droga che solo apparentemente sembra apportare miglioramenti alle esistenze e fornire le basi per la realizzazione dei sogni dei protagonisti, ma che in realtà ne mina il fisico e lo spirito e li porta inesorabilmente verso un triste epilogo.
La droga e la dipendenza che essa provoca prendono il sopravvento sulle aspirazioni, sui desideri e sugli affetti; spingono ad umiliarsi, ad accettare compromessi e a perdere una parte di sè. Nemmeno l'amore riesce ad avere il sopravvento sull'astinenza da stupefacenti.
Nessuna speranza di riscatto traspare dal finale e un senso di angoscia pervade lo spettatore che impotente assiste allo sgretolarsi di queste vite.
Cosa ha portato questi personaggi a fare uso di droghe? La solitudine, la ricerca di una facile risposta ai propri problemi, il disperato desiderio di quella sicurezza "materna" ormai irragiungibile e ben raffigurata dalla posizione fetale che i personaggi assumono negli ultimi fotogrammi, l'ansia di non essere all'altezza delle aspettative della propria famiglia o della società? Come risponde la comunità alle persone che si "fanno"? In maniera indifferente, fredda e quasi cinica come gli esponenti dell'apparato sanitario o i tutori della legge che compaiono nel film? O con la triste e disperata impotenza delle amiche di Sara che, arrivate ormai troppo tardi per aiutare l'amica, si ritrovano a piangere davanti alla clinica in cui è rinchiusa?
Queste alcune delle domande su cui ci si è interrogati al termine della proiezione e che hanno animato la discussione su un film indubbiamente forte, ma che -a parer mio- ha il merito di presentare in modo non retorico ed edulcorato un tema del quale è giusto mettere in evidenza la crudezza.

martedì 4 dicembre 2007

Parliamone insieme: "28 giorni"

Ieri 3 dicembre secondo appuntamento con il ciclo di film legato alle dipendenze, "Parliamone insieme", organizzato dal Gruppo Giovani della parrocchia di San Lanfranco (vd. post 27 novembre 2007). Tema della serata l'alcolismo, affrontato attraverso la visione di 28 giorni pellicola del 2000 di Betty Thomas.
Il film racconta la storia di Gwen (Sandra Bullock) che trascorre il suo tempo libero tra serate con gli amici e party scatenati dove scorrono fiumi di alcol e dai quali esce sempre ubriaca fradicia, come capiamo subito dai titoli di coda accompagnati da una colonna sonora vivace e da immagini rapide e caotiche che, però, ben sintetizzano la vita sregolata della protagonista.
Proprio in seguito a una di queste nottate folli, Gwen arriva tardi al matrimonio della sorella, caratterialmente al suo opposto, rovina il suo banchetto nuziale e finisce per schiantarsi con l'auto contro una casa.
Il giudice deciderà per lei il ricovero per ventotto giorni presso un centro di riabilitazione fuori città, diretto da uno Steve Buscemi (Cornell) ex alcolizzato redento, dove Gwen avrà modo di incontrare uno strambo gruppo di lavoro composto da personalità affette da diverse problematiche che hanno cercato una risposta ai loro disagi nelle droghe, nell'alcol o nei rapporti sessuali occasionali, tra loro anche un Viggo Mortensen (Eddie) pre Signore degli anelli .
Dopo un'iniziale ritrosia, primo elemento a determinare effetti comici divertenti, Gwen comincerà ad accettare l'idea di aver bisogno di aiuto e affronterà in maniera diversa il percorso riabilitativo.
Il film, pur essendo una commedia, riesce attraverso un tocco a volte cinico e amaro a descrivere compiutamente il tema delle dipendenze e delle conseguenze da esse generate. Vediamo così come l'alcol e le droghe, apparenti soluzioni ai più svariati problemi (difficoltà in famiglia, senso di abbandono, stress, bisogno di attenzione, desiderio di dimenticare, ricerca di una carica in più, volontà di sentirsi integrati in un gruppo e in un ambiente, mancanza di fiducia nelle proprie possibilità), conducano in realtà verso la distruzione totale che riguarda il fisico, la mente, il campo lavorativo e i rapporti interpersonali.
Passo più importante e più difficile da affrontare è l'ammettere di avere un problema e il decidersi a chiedere aiuto, imparando a fidarsi degli altri e a cercare la soluzione alle proprie ansie e paure dentro se stessi e non in un surrogato esterno.
Proprio questo è il percorso compiuto da Gwen. Pur tra una battuta e l'altra -che, a mio parere, non hanno la volontà di sminuire o minimizzare il problema, bensì solo di presentarlo in un tono più avvicinabile dai più, ma non certo meno tragico- numerosi sono gli spunti di riflessione che scaturiscono dal film e che hanno animato la discussione seguente alla proiezione.
Nel dibattito, oltre a interrogarsi sul film, sulle cause che possono portare a una dipendenza come quella dall'alcol e sulle tappe necessarie all'individuazione di questo disagio e alla sua soluzione, il dialogo si è poi spostato sul tema più circoscritto dell'uso eccessivo di bevande alcoliche da parte dei giovani e dei giovanissimi (categoria un po' trascurata da 28 giorni), argomento quanto mai attuale anche in realtà a noi molto vicine. Ci si è domandati quale sia la molla che spinge un adolescente a bere o a fare uso di droghe e diverse opinioni si sono confrontate: desiderio di sentirsi integrati, voglia di far parte di un gruppo, disagi familiari, emulazione di modelli di "successo o popolarità" o semplice curiosità e ricerca di evasione dalla noia. Si è discusso su quanti effettivamente rimangano poi casi sporadici di bevute in compagnia legate all'immaturità o quanti si trasformino poi in vere e proprie dipendenze; su come i ragazzi tendano a vantarsi di queste loro bravate a differenza della maggior parte degli adulti, che affetti da questo problema, se ne vergognano e tendono invece ad isolarsi.
Moltissime sarebbero le altre riflessioni da fare su un argomento tanto ampio che ci si è ripromessi di riaffrontare anche in altre serate di discussione.
Per concludere mi piacerebbe citare una frase del film che, per quanto ad alcuni possa apparire sdolcinata, retorica o forse inadeguata a un problema tanto grave, mi pare ben possa fornire un consiglio a coloro i quali cercano nell'alcol la soluzione al loro non sentirsi all'altezza delle situazioni e al non percepirsi integrati nella società: "Non diventare una frase fatta perchè sei poesia!"